Approfondimento a cura degli studenti della IIIA 2016-2017 del Liceo Classico e Scientifico “Pepe-Calamo”, nell’ambito del programma di alternanza scuola-lavoro.
L’alternanza scuola lavoro è un’esperienza formativa che unisce sapere e saper fare, per orientare le aspirazioni degli studenti e mettere in relazione didattica e apprendimento con il mondo esterno. Secondo la legge 107 del 2015 che riguarda la “Buona scuola”, l’unica risposta alla disoccupazione e al disallineamento tra domanda e offerta del mercato del lavoro è una scuola collegata con il mondo esterno: quest’istituzione deve diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze. Perciò deve aprirsi al territorio chiedendo alla società di rendere tutti gli studenti protagonisti consapevoli delle loro scelte. L’alternanza scuola-lavoro è obbligatoria per tutti gli studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori. Il monte di ore obbligatorio da rispettare è di 400 ore negli istituti tecnici e professionali e di 200 ore nei licei. L’adozione di questo modello in tutte le scuole supera la divisione tra percorsi di studio fondati sulla conoscenza ed altri che privilegiano l’esperienza pratica, in favore di un approccio al sapere a 360°.
L’alternanza scuola lavoro è un’esperienza educativa, coprogettata dalla scuola con altri soggetti e istituzioni, finalizzata ad offrire agli studenti occasioni formative di alto e qualificato profilo. Il percorso è occasione per i ragazzi di inserirsi in contesti lavorativi e favorire lo sviluppo del “Senso di iniziativa ed imprenditorialità” che significa saper tradurre le idee in azione.
Questa competenza aiuta gli individui ad acquisire consapevolezza del contesto lavorativo e a poter cogliere ogni opportunità. Lo studente in alternanza non è mai un lavoratore, ma apprende competenze coerenti con il suo percorso di studi in realtà operative. Pur nella differenza dei ruoli e delle competenze, le scuole e il mondo del lavoro sono sollecitati ad interagire per una maggiore corresponsabilità educativa e sociale orientata alla valorizzazione delle aspirazioni degli studenti nell’ottica di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
Con la Bio Solequo Coop ha avuto inizio l’elaborazione di schede botaniche per le vecchie varietà, l’apprendimento di alcuni cenni storici sugli orti urbani e un primo approccio alle comunicazioni social.
Partendo quindi dal rapporto con le tradizioni, il percorso di formazione si è sviluppato in un’ottica più ampia che permette la condivisione del materiale elaborato e dell’interesse per il territorio rivisto in chiave giovanile. Le competenze classiche hanno agevolato queste operazioni.
Infatti una buona conoscenza del passato, regala uno sguardo più lucido sul presente e un approccio positivo e propositivo riguardo al futuro.
Le lezioni teoriche hanno permesso una maggiore consapevolezza del percorso da intraprendere, grazie alla quale è stato più facile affrontare la seconda parte del progetto, iniziata con i primi sopralluoghi agli Giardini della Grata. Qui è stato possibile riscontrare in maniera tangibile le testimonianze della storia del luogo, dalla riscoperta del biologico a quella degli antichi sistemi d’irrigazione in pietra e delle tombe messapiche utilizzate come cisterne.
In una società come la nostra, in costante tensione verso il futuro e il digitale, la comunicazione informatica può e deve andare di pari passo con la storia per far sì che questa continui ad essere una risorsa in grado di creare sviluppo e cultura.
Per quest’evento è stato necessario il ricorso a tutte le fonti disponibili: testimonianze, giornali, libri e Internet. I dati raccolti sono stati poi rielaborati ed esposti per poter essere agevolmente condivisi.
Si potrebbe pensare che non ci sia attinenza tra gli studi classici e il tipo di progetto; in realtà il liceo garantisce un’apertura mentale ed una capacità di adattamento che ben si sposano al tipo di lavoro proposto, che richiede competenze teoriche e pratiche, ma anche capacità di comunicazione.
In età medioevale i terreni prossimi a chiese e monasteri extra urbani, in genere incolti, iniziarono a essere bonificati e destinati alla coltivazione di ortaggi, che per non essere molto sviluppati in altezza assicuravano una buona visibilità delle aree limitrofe al centro abitato per la difesa cittadina. Queste aree favorivano, attraverso una estesa rete di stradine rurali, un sicuro e sorvegliato collegamento tra insediamenti rurali e città, fornendo, inoltre, risorse alimentari di rapida produzione e consumo. Ma non sempre era stato così perché molte città erano circondate da casali o da piccoli nuclei in cui si raccoglieva una popolazione sparsa che, a seguito di particolari vicissitudini, era stata costretta ad inurbarsi. Questo sporadico fenomeno assunse dimensioni su larga scala in seguito alle guerre borbonico-austriache (p. m. del XVIII sec.), che imposero la necessità di un rifugio sicuro, auspicabile appunto solo nei borghi fortificati. La ripopolazione si ebbe nella seconda metà del XVIII sec., con rinnovato interesse per la cura estetica degli orti stessi, che in seguito ad un cinquantennio di decadimento e abbandono, erano parzialmente caduti in rovina.
Nella Capitanata, corrispondente all’attuale provincia di Foggia, le superfici orticole erano minacciate dai greggi dei pastori abruzzesi che attraversavano il Tavoliere per raggiungere i pascoli posti più a meridione, dando origine a notevoli conflittualità tra gli operatori di questi due settori. Questo provocò l’insorgere di numerosi processi giudiziari e di vere e proprie dispute fisiche che cessarono nel 1806 quando con la legge del 21 maggio l’abolizione della Dogana delle Pecore decretò la fine di un’antichissima consuetudine propria della transumanza abruzzese.
Gli orti recuperati vennero riorganizzati e ordinati coniugando esigenze agrarie con il desiderio di rendere esteticamente gradevoli i terreni, con recinzioni elevate con filari regolari di pietre, con accessi valorizzati da elementi decorativi, affidando ad edicole votive la volontà di propiziarsi i favori celesti per allontanare i pericoli che potevano minacciare le produzioni (parassiti, siccità, occupazioni improprie). Il paesaggio degli orti acquista pertanto un valore estetico costituendo quello che comunemente è noto come giardino mediterraneo. All’interno delle masserie, aziende agrarie autonome che sorgono in Puglia nella metà del XVIII secolo, l’orto assume una particolare importanza. Spesso costruite intorno ad un nucleo più antico, rappresentato dalle torri di difesa contro gli attacchi turchi, le masserie divennero luoghi di residenza stabili da parte dei proprietari che oltre al controllo delle diversificate attività che si svolgevano all’interno, non disdegnavano di godere degli agi tipici della città, prestando cura alla realizzazione di spazi per dedicarsi all’otium letterario. Nel tempo ciò porterà ad una frammentazione degli orti e una loro ridefinizione come veri e propri giardini, con la creazione di fontane, di aiuole fiorite, coffee house, luoghi di svago e di delizie. La decontestualizzazione e l’alterazione della loro omogeneità e funzione originaria, porteranno a forme di esclusione sociale
che pregiudica a molti, contadini o non, l’accesso a territori già oggetto di
una intensa e comunitaria vita economica e religiosa (elaborato da A. Spagnoletti, Materiali per una storia del paesaggio culturale pugliese in età moderna)
La zona degli orti periurbani era originalmente adibita a necropoli messapica. Nell’età romana e tardoantica, un periodo di notevole decadimento politico e sociale, l’area è stata abbandonata e gli strati di terra accumulatasi hanno occultato progressivamente la precedente destinazione cimiteriale. In un momento di crescita demografica ed economica corrispondente al basso Medioevo queste aree, localizzate lungo gli scoscendimenti delle colline sulle quali era arroccato il centro urbano, furono destinate all’orticultura attraverso un razionale sistema di terrazzamenti divisi da muretti a secco o cementati, cioè a cotto. Sorsero anche dei piccoli agglomerati di case detti casali. In questa zona fu edificato il borgo Sant’Elena, che prendeva il nome da una piccola cappella dedicata alla madre dell’imperatore Costantino. Per motivi di sicurezza, nel corso del secolo successivo, gli abitanti di questi casali si rifugiarono all’interno della città fortificata, che offriva maggior protezione . Gli agri passarono nelle mani di nobili, borghesi ed ecclesiastici per essere avere un notevole valore fondiario Questi ultimi (Capitolo Cattedrale, Monastero delle Benedettine, Convento del Carmine) erano passati per l’acquisto delle indulgenze plenarie nelle mani del clero, che li concedeva in fitto con contratti enfiteutici estremamente vantaggiosi per i coltivatori, che pagavano annualmente un canone (censo) molto basso. Ancora nel 1927 l’agro veniva indicata come vico Santa Elena (ora via Benedetto Brin), il tratto stradale che da Corso Vittorio Emanuele giunge nella zona degli orti. Nel dopoguerra, ed in particolare nell’ultimo quindicennio abbiamo assistito ad una grande trasformazione delle strutture agricole, nel passaggio della gestione degli agri dai piccoli proprietari alle grandi cooperative, dettata dalla trasformazione del mercato e dall’introduzione di nuove tecnologie; questi processi hanno portato al progressivo abbandono degli agri in questione.
Elemento caratterizzante del panorama nord-occidentale della città, gli orti periurbani si sviluppano alle pendici dei rilievi collinari, attraverso una geometrica ripartizione di fondi terrazzati. Nella parte più a valle assumono le caratteristiche di giardino mediterraneo, con alberi fruttiferi cintati da muri alti, e serviti da strade che li relazionano al centro urbano. In Ostuni, più che altrove, questo singolare assetto del territorio, sottratto all’occupazione edilizia, si è conservato inalterato. Silenziosa testimone di una storia millenaria, la zona degli orti ha rappresentato nei secoli un’ importantissima risorsa per la città e per la vicinanza al centro abitato e per la molteplicità degli usi a cui è stata destinata. Le numerose cavità artificiali che si aprono nei terreni, detti petrari, furono sfruttati sin dai tempi più antichi per l’estrazione di materiale da utilizzare per l’edilizia. Successivamente, in età messapica, gran parte dell’area fu occupata dalla necropoli, documentata da una serie di ritrovamenti venuti casualmente alla luce durante i lavori di scavo nei terreni, come in data 26 luglio del 1880, quando Cosimo de Giorgi, illustre geologo salentino, e lo storico ostunese Ludovico Pepe, furono testimoni del disseppellimento di 5 tombe nel giardino Crocifisso, nelle quali si trovano alcuni vasi di terracotta. Nulla si conosce delle vicende che interessano l’area durante l’età romana e alto-medievale, mentre sono attestati a partire dall’VIII sec. i casali Sant’Angelo e Sant’Elena e ben 14 cappelle rurali. Edicole, pietre decorate, frammenti, toponimi e quanto rimane di quel passato che ancora alla fine dell’ottocento si poteva leggere più chiaramente nelle pietre. Fino a poco tempo fa li jardenere, come sono più comunemente indicati nel nostro vernacolo, erano in stato di abbandono; solo pochi ortolani proseguivano coraggiosamente un’attività soffocate dai mutamenti dei sistemi produttivi e dalle nuove dinamiche economiche.
Il santuario della Madonna della Grata, oltre ad avere una rilevante importanza religiosa, presenta una notevole valenza architettonica e paesaggistica. Sorge nella fascia suburbana della città bianca, in contrada Madonna della Grata, anticamente detta Sant’Elena o Sant’Agata, una parte del territorio destinata ieri come oggi alla coltivazione orticola, lungo l’antica strada di collegamento tra Ostuni e Carovigno, essendo stata realizzata l’attuale Statale 16 solo nel 1840.
La tradizione racconta che un uomo costretto da lancinanti dolori alla schiena a camminare curvo, riassunse una posizione eretta dopo aver invocato la Madonna con il Bambino Gedù ritratta in una nicchia ricavata nel muro di recinzione di un orto. Ritenuta prodigiosa, l’immagine divenne ben presto oggetto di preghiera e devozione. Fu denominata della grata un titolo mariano insolito che si giustifica perchè indicativo della schiena nel vernacolo locale ma anche allusivo della grazia ricevuta. Secondo un’altra leggenda un contadino cadendo da un albero del suo giardino che stava potando,rimase incolume per aver pregato la Madonna raffigurata nell’edicola. Questo accadde intono alla metà del 1700 e i devoti che numerosi accorrevano per rendere omaggio alla venerata raffigurazione, decisero di erigerle intorno una cappellina. Alla fine del 1800 si decise di costruire una sede più adeguata per accogliere il continuo pellegrinaggio di fedeli. Il Santuario, progettato dall’architetto Gaetano Jurleo (1860-1926) in stile neorinascimentale, fu consacrato nel 1912. Sorge su una cavità naturale destinata sin da tempi remoti a contenere acque necessarie all’irrigazione degli orti vicini e presenta una pianta centrale sormontata da una splendida cupola che si eleva sul livello dei terrazzamenti degli orti .
Se la Madonna della Grata è la divina patrona dei giardinieri, il campione maschile è sant’Agostino che è il terzo patrono di Ostuni. Era onorato sin dal 1670 nella prima cappella posta sul lato destro della chiesa di San Francesco, dove ancora oggi è posta la statua in legno del santo, portata anticamente in processione nella zona degli orti. Il Santo, festeggiato il 27 agosto, era invocato per il dono della pioggia, quando in estate, le riserve idriche degli acquari cominciavano a scarseggiare. Un’altra statua in pietra di Sant’Agostino si può osservare nell’obelisco di sant’Oronzo in Piazza della Libertà, mentre dispensa la sua benedizione proprio in direzione gli orti.
L’esistenza di una ricca documentazione archivistica riguardante i giardini ostunesi ci consente di ricostruire la storia di questi terreni, che nel corso dei secoli non hanno subito modifiche di perimetrazione nè di destinazione d’uso.
I giardini che abbiamo di fronte erano detti Siccodo aperto (ora zona parcheggio) e Siccodo chiuso (ora zona Vitale) .Prendevano il nome da Bartolomeo Siccoda, ricco mercante napoletano che li aveva acquistati nella metà del 1500. Dopo il fallimento della sua attività per i numerosi debiti i giardini passarono tra i beni del decurionato Aragonese, fino all’odierno passaggio nelle mani dell’amministrazione comunale.
Ecco il contratto di fitto stipulato il 28 maggio del 1855, dal quale si evincono i patti stabiliti:
“Riunito, il decurionato ha detto: signori decurioni, nel 18 settembre scade l’affitto del giardino appellato Siccodo chiuso, di proprietà di codesto comune, affittato ai fratelli Giuseppe e Matteo Cavallo, per l’annuo estaglio (fitto), di ducati 230, e nonostante gli avvisi pubblicati, pur non di meno vi è stata offerta alcuna. Il decurionato, intesa la suddetta propositura ha deliberato come segue:
1. Aprirsi gli incanti ad offerendum per la soma di ducati 225, e per la durata di anni quattro continui, da principiare nel dì otto del mese di Settembre 1855
2. Il fittuario sarà tenuto manutenere e conservare detto giardino all’uso cui trovasi destinato, e in ottima coltivazione, e col termine della locazione rassegneranno detto giardino colli nuovi muri di cinta, e vasi di acqua nel perfetto stato locativo e con le seguenti lascidanie (lasciti) e piantine, cioè: a ) acquaro dietro la porta, le due cisterne alla spalla, quella del quadro (quadrato) delle cosiddette rolle (piantine), perfettamente piene d’acqua
b)nell’acquaro grande tre palmi di acqua da misurarsi da sopra il letto (fondo )
c) le rolla per le piantine delli fogliami del valore di ducati sei
3. L’annuo estaglio sarà pagato in monta d’argento e terziatamente, cioè all’otto gennaro, otto maggio e otto settembre di ciascun anno di locazione
(Biblioteca Comunale “F. Trinchera “ Ostuni, Archivio preunitario, Fondo cespiti comunale, Busta 11, fascicolo 4, 1855)
I Messapi erano un’antica popolazione proveniente dalla regione corrispondente alla parte occidentale della penisola balcanica; l’origine del nome ‘Messapi’ deriva dal greco ‘mesos’ (mezzo) e ‘ap’ (all’acqua), poiché si stabilirono tra lo Ionio e l’Adriatico. Erodoto li ricorda come una popolazione unitaria e compatta etnicamente e culturalmente; in un passo della sua opera, i Messapi sono definiti discendenti dei Cretesi, che si spinsero sulle coste del Salento, si mescolarono alle popolazioni già presenti e fondarono le prime città, portando usi e costumi che distinsero i Salentini dalle altre popolazioni. Essi giunsero nella penisola salentina circa nel 900 avanti Cristo, fondando diversi centri agricoli come Rudiae, Cavallino e Vaste e molte altri centri sulla costa come Roca Vecchia dove è possibile visitare la “Grotta della Poesia ed al suo interno vedere le tante iscrizioni messapiche, grazie alle quali è evidente quanto il Salento sia una terra antica e come questa lingua sia difficile da capire. Nel VII secolo a.C. essi strinsero amicizia con i popoli confinanti e tra il VI e il V secolo avanti Cristo. introdussero importanti innovazioni come la SCRITTURA, utilizzando l’alfabeto greco e pratiche religiose affini alla cultura ellenica. Inoltre la civiltà messapica era caratterizzata da una nuova ceramica attestata da reperti simili alle ceramiche micenee, ma appartenente a popolazioni che non vissero nell’Egeo. I Messapi coltivavano l’ulivo, la vite; si dedicavano alla pastorizia, all’allevamento dei cani, all’apicoltura e particolarmente sviluppato era l’allevamento dei cavalli. Infatti intorno al 500 avanti Cristo. I Tarantini si rivolsero ad un artista peloponnesiaco, Agelada di Argo, per innalzare a Delfi il donario commemorativo di una vittoria sui Messapi che rappresentava la preda tratta dal popolo vinto, e cioè donne e cavalli. Inoltre essi indossavano una veste lunga che si stringeva ai lembi con un cappuccio, usavano sandali; le donne mettevano lunghe tuniche e si ornavano il capo con una corona, come si evince dai vasi istoriati. Per quanto riguarda le abitazioni, dall’Età del Ferro in poi, sono costruite attorno ad un cortile, con muri di pietra e copertura con tegole e la maggior parte di queste sorgevano in luoghi elevati . I centri messapici sono sotto il dominio della Dodecapoli, , docici città dominanti che svolgono funzione di organizzazione in caso di guerra con l’odiata colonia greca di Taras (Taranto). Nel 473 a.C. i cavalieri Messapi e i combattenti di altre popolazioni vicine riuscirono a sconfiggere gli ex spartani determinando anche la caduta dell’aristocrazia tarantina. Erodoto racconta che fu la più grande strage a sua memoria. Causa di ciò fu l’invasione di Carbinia, (l’attuale Carovigno) da parte dei tarantini che, dopo averla devastata, raggrupparono donne e bambini, li denudarono, li ammassarono nei templi e li esposero agli sguardi di chiunque avesse voluto soddisfare le proprie voglie.
Nel IV secolo avanti Cristo la popolazione messapica riuscì a sconfiggere due grandi potenze della Magna Grecia, Taranto e Reggio, grazie alla particolare tecnica di combattimento dei combattenti in groppa ad una specie autoctona diffusa ovvero l’Equus hydruntinus (cavallo idruntino di Otranto) . Però la loro gloria non durò per molto a causa dell’avvento dei Romani: questi, dopo aver conquistato Taranto e Brindisi, iniziarono a sottomettere tutto il Salento Messapico. Riuscirono nel 266 avanti Cristo a conquistare anche Rudiae, uno dei principali centri Messapici e i rapporti con la Magna Grecia cessarono.
Questa civiltà, come molte altre del passato, riservò un’attenzione particolare ai riti funebri. Ne sono testimonianza i reperti emersi nelle tombe durante scavi archeologici sistematici o in ritrovamenti casuali nella zona degli orti, oggi conservati nel museo di Civiltà Preclassiche della Murgia Meridionale di Ostuni, situato nella chiesa di San Vito Martire. La necropoli messapica ostunese era posta all’interno del circuito murario anche se in altri contesti le aree sepolcrali sono localizzate al di fuori delle cinta murarie. Dagli archeologi sono stati ritrovati nel territorio della Magna Grecia tre tipi di tombe :
a fossa (scavate direttamente nella pietra tenera e coperte da un lastrone);
a semicamera, protette da muri e coperte da lastroni
a camera o cassa, con le pareti della fossa rivestite da lastre
Queste diverse tipologie corrispondono allo status sociale del seppellito. Infatti mentre le tombe appartenute ai ceti più modesti erano piuttosto semplici, costituite da un’ unica stanza, quelle dei ceti più abbienti avevano un vestibolo esterno chiamato dromos, a cui si accedeva da una scala intagliata nella roccia, ed una camera funeraria interamente affrescata la cui porta di accesso era chiusa da due pietre molto grandi accostate. I dipinti realizzati sulle pareti erano molto simili a quelli realizzati nelle abitazioni, con elementi vegetali, festoni, o anche travatura lignea presente sul soffitto. Le tombe non erano destinate a un singolo individuo, ma a più individui spesso appartenenti alla stessa famiglia. Il rito funebre e la deposizione poteva avvenire secondo diverse modalità:
sul fianco; in posizione rannicchiata (fetale) per l’età arcaica, attestata in diverse aree ‘indigene’ dell’Italia meridionale;
supina, con le braccia distese lungo i fianchi o incrociate sul petto, venne introdotta nella seconda metà del V secolo a.C.;
e a partire dal IV secolo a.C., infine, la presenza del ‘letto funebre’ (in greco kline) appare indiziata da alcuni elementi quali la notevole profondità della fossa e le quattro ‘fossette’ angolari sul fondo della stessa, destinate verosimilmente ad alloggiare gli alti piedi del letto.
I diversi oggetti ritrovati dagli archeologi nelle tombe erano collegati alla vita privata dell’uomo, con un’ importante distinzione in base al sesso: nelle tombe maschili sono stati ritrovati vasi in ceramica legati ai tre principali aspetti del mondo virile: il consumo del vino (il cratere, usato per miscelare acqua e vino, l’oinokhoe per mescere, il boccaletto per attingere, lo skyphos e il kantharos per bere), la palestra (ariballoi, lekitoi e alabastra contenenti unguenti e oli con i quali gli atleti si cospargevano il corpo) e la guerra (armi come punte di lance, cinturoni, elmi e speroni).
Nelle tombe femminili è emersa, sin dai corredi più antichi, la trozzella, che è divenuto il segno rappresentativo di questa civiltà. Mostra un corpo ovoidale più o meno assottigliato alla base, con alte anse. Erano prodotte solitamente con l’argilla locale, dal colore molto chiaro ed erano decorate con pittura bruno-rossastra o rosso-nerastra.
La trozzella comparve nella Messapia intorno al VI secolo a.C.: inizialmente con pittura monocroma in stile geometrico, molto lineare, caratterizzata da meandri, scacchiere e zig-zag. In una fase successiva i motivi meno schematici accolsero cerchi, rosette, stelle e volute per introdurre successivamente elementi ispirati al mondo vegetale come rami di edera e fronde di olivo. La decorazione figurata talvolta si arricchiva di rappresentazioni umane e animali (galli, grifi) e con l’avvento dell’ellenismo sulle trozzelle comparvero anche decorazioni timidamente policrome.
A partire dal IV secolo nelle tombe furono deposti accanto alla trozzella altri oggetti quali gioielli (anelli, collanine, orecchini) e vasi/contenitori di unguenti, olii profumati e profumi (lekythoi e unguentari). Frequenti furono anche i pesi da telaio a forma troncopiramidale, espressione di una delle attività lavorative delle donne messapiche: la tessitura. Anche le deposizioni dei bambini erano dotate di un corredo funerario in ceramica. Gli archeologi italiani hanno scoperto un antico maiale di terracotta che serviva come giocattolo oltre che come dispensatore di latte. Il guttus tintinnabula, questo era il nome dell’ oggetto, aveva la forma di maiale e aveva dei sonagli nella pancia per incoraggiare il bambino a dormire dopo il pasto. Un beccuccio leggermente allungato consentiva il gocciolamento del latte raccolto all’interno del vassetto.
Il piccolo manufatto è uno dei rari oggetti rinvenuti a Manduria, vicino a Taranto, quando alcuni lavori di costruzione di una casa portarono al ritrovamento di una tomba messapica.
Oggetti caratteristici del rituale funerario, e presenti in tutte le tombe indipendentemente dal sesso o dall’età del defunto, sono le lekanai e i piatti, legate sicuramente alla concezione della vita dopo la morte; si credeva, infatti, che il corpo dopo la morte fosse destinato a un’ altra vita e proprio per questo nelle tombe venivano posti oggetti destinati a contenere offerte di cibo ‘per il viaggio nell’aldilà’, oppure lucerne, che servivano, forse, a illuminare il cammino.
Ostuni ,città situata su tre colli a 218 metri s.l.m. possiede una morfologia del territorio in grado di convogliare le acque nella parte bassa della città.
Da sempre sfruttato con dei terrazzamenti per le coltivazioni e andando a perdere l’acqua a causa della pendenza, i contadini svilupparono la coltivazione in arido coltura.
L’acqua non poteva essere sprecata per nessuna ragione ,infatti quella poca che si riusciva a conservare ,veniva raccolta in cisterne che possiamo ancora oggi ritrovare nella zona dei “giardini della Grata” ma che erano diffuse, nel passato, anche in altre parti della città. E’ da ricordare ad esempio, il grande bacino di raccolta delle acque, la Foggia (dal latino fovea fossa) che, bonificato tra la fine del 1800 e i primi decenni del 1900, ha dato orgine alla Villa Comunale di Ostuni. Qui, infatti, si riconosce uno dei punti più bassi della città punto di congiunzione di due delle tre colline su cui è situata la città. Parte dell’acqua proveniente da questi declivi percolava verso la zona degli orti. Un’altra canalizzazione, ancora oggi visibile lungo corso Vittorio Emanuele, convogliava le acque che discendevano dai rilievi circostanti l’attuale Viale Crispi, dirigendoli verso gli “orti della Grata” .
Come ben sappiamo a Ostuni è famosa la coltivazione dei pomodori regina o pomodori appesi, una varietà che necessita di pochissima acqua, selezionata proprio in relazione alla scarsità di riserve idriche del nostro territorio.
Il pozzo e la cisterna rappresentano due delle componenti essenziali nei sistemi di raccolta delle acque potabili. Nel Medioevo occidentale si identificarono genericamente come pozzi tutte le strutture connesse con la pratica di attingere acqua sia dalle falde acquifere sia da serbatoi sotterranei, le cisterne, utilizzate per immagazzinare l’acqua piovana. Il collasso progressivo delle reti distributive idriche che rifornivano per mezzo degli acquedotti le città dell’Occidente romano fu la causa, già a partire dall’età tardo antica, della diffusione sempre più capillare di strutture di questo tipo per usi pubblici e privati. Per quanto riguarda i pozzi, mentre la tipologia strutturale appare sostanzialmente unitaria e legata alla realizzazione di una perforazione a pianta circolare o quadrangolare, con successivo rivestimento delle pareti con materiali diversi (pietra, laterizi, legno, cementizio), più articolata appare la tipologia funzionale, con diverse varianti nel sistema di recupero del contenitore utilizzato per raccogliere l’acqua. La struttura in muratura che permetteva l’attingimento dell’acqua, nel corso del tempo, si modellerà in varie forme geometriche (circolari, quadrangolari, ottagonali ecc.) ponendo particolare attenzione alla veste decorativa della vera o puteale, il parapetto di forma cilindrica o poligonale che proteggeva l’imboccatura del pozzo stesso, arricchito a volte di elementi scultorei, bassorilievi animali o figurati. Per quel che riguarda invece le cisterne, una prima valutazione della casistica sembra indicare l’esistenza di due tipi fondamentali, che la storiografia tedesca distingue in Tankzisterne e Filterzisterne.
Il primo tipo è rappresentato dai serbatoi sotterranei – generalmente di forma quadrangolare – entro i quali affluiva l’acqua, adeguatamente filtrata, da attingere mediante pozzi. Il secondo tipo di cisterna è quello rappresentato dagli invasi con sistema di filtraggio e pozzo centrale per attingere l’acqua. Le cisterne alla veneziana sono costituite da un invaso sotterraneo con sezione a forma di tronco di piramide rovesciata, da un pozzo centrale e da piccoli raccoglitori laterali dell’acqua piovana, detti ‘cassettoni’. Scavato l’invaso, esso veniva rivestito internamente con uno spesso strato sigillante di argilla e poi riempito di sabbia. L’acqua, scendendo attraverso tombini e raccogliendosi nei cassettoni, passava attraverso lo strato filtrante di sabbia e raggiungeva, purificata, l’interno della canna del pozzo centrale.
Nella zona degli orti periurbani di Ostuni si possono riconoscere numerose tipologie di contenitori per la raccolta dell’acqua che rimandono a una terminologia locale molto precisa e rigorosa: acquari, cisterne, vasche, piloni, pile e altri manufatti. Per acquaro si intende un serbatoio d’acqua di oltre 5000 q., per cisterna , invece, un serbatoio di circa 1000 q., per vasca un raccoglitore d’acqua, rettangolare o quadrato, della capienza di 100 litri d’acqua e per pilone un bacino d’acqua profondo poco più di un metro per ripulire gli ortaggi appena raccolti dai residui di terra. La pila era un piccolo bacino finalizzato all’abbeveramento degli animali.
Per l’approvvigionamento idrico in Ostuni si usavano vari contenitori, tra i quali ricordiamo: la cannàta di argilla, latta o zinco a forma di anfora con corpo molto sviluppato in altezza e breve collo terminale e lu mummulu vaso panciuto a due anse con collo stretto, usato non solo per l’acqua ma anche per l’olio, che, nell’essere versati, gorgogliavano.
Le acque meteoriche che discendevano dalle pendici dei colli erano convogliate nelle cisterne attraverso una ramificata rete di canali che terminavano negli acquari o nelle cisterne. I canali erano realizzati in pietra e, ancora oggi, sono visibili deviazioni e diramazioni che facilitavano il raggiungimento dell’acqua verso le superfici più periferiche del terreno. A volte, per regolamentare il flusso delle acque si ponevano al termine di un condotto idrico, in prossimità di un bacino di raccolta dell’acqua dal quale si sviluppavano diverse diramazioni di canaline, delle tavolette di legno che bloccavano il percorso in una determinata diramazione, deviandolo verso quella desiderata.